venerdì 7 marzo 2008

LA SCUOLA RIMINESE DEL TRECENTO

La mostra Giovanni Baronzio e la pittura a Rimini nel Trecento sarà l’occasione per considerare di nuovo il “mistero” di un ambiente artistico come quello riminese, che, fiorito in maniera repentina tra la fine del ‘200 e gli inizi del ‘300, si sviluppò per circa un cinquantennio per poi scomparire, incapace di rinnovarsi a confronto con le scuole bolognese e veneta.
Operanti in una città da un lato cosmopolita per i rapporti con gli altri centri italiani, il mondo d’oltralpe, le regioni adriatiche e l’Oriente bizantino, dall’altro attraversata da tensioni politiche e religiose, dei pittori riminesi si conoscono pochi documenti e dati certi.
Diversi autori di cui parlano le fonti rimangono ancora privi di opere, in una condizione di anonimato artistico. Ciò nonostante gli studi hanno fatto passi avanti importanti e si sono potute distinguere due generazioni. Alla prima appartengono personalità come Giovanni (notizie dal 1292 al 1309/14), Giuliano (noto dal 1292 al 1323) e quella ancora sfuggente di Giovan Angelo, che forse intervenne nello spettacolare ciclo nel coro della chiesa di S. Agostino.
Successivamente troviamo attivi pittori come Pietro (notizie dal 1324 al 1338), autore e direttore nel grande cantiere della Cappella di San Nicola a Tolentino; Francesco (ricordato nel 1333), forse coincidente con il Maestro di Verucchio; Giovanni Baronzio; il Maestro di Montefiore.
Artisti come questi erano certamente inconsapevoli di creare una “scuola”, invece erano ben coscienti, per motivi di organizzazione del lavoro e di acquisizione di incarichi, di costituire in città un gruppo piuttosto compatto. Naturalmente potevano essere in concorrenza fra loro ma all’occorrenza formare delle società (come fecero Giuliano e Pietro nel 1324 per realizzare un polittico nella chiesa degli Eremitani a Padova, purtroppo perduto). Alcuni di loro erano addirittura legati da strettissimi rapporti di parentela: si tratta di Giovanni e Giuliano, insieme anche al più sfuggente Giovan Angelo, fra i protagonisti assoluti della pittura riminese.
Questa situazione insieme alla prassi della bottega secondo cui i maestri già affermati tramandavano la tecnica e la cultura artistiche ai propri allievi favorirono sicuramente il diffondersi di un linguaggio pittorico di base, da cui si diramarono autonome e originali interpretazioni. I modelli formali ed espressivi con i quali confrontarsi i pittori riminesi li trovarono in Giotto, cioè in colui che, come scrisse il pittore e trattatista Cennino Cennini alla fine del Trecento, “rimutò l’arte del dipingere di greco in latino, e ridusse al moderno”.
Come i loro colleghi umbri, toscani, romani, anche alcuni riminesi studiarono e forse parteciparono al cantiere giottesco di Assisi. E’ certo tuttavia che un episodio determinante fu il passaggio del grande toscano a Rimini, poco prima del 1300: di quel transito rimane oggi la monumentale Croce in San Francesco ma il suo intervento si era esteso anche ad un ciclo affrescato nella stessa chiesa, perduto per la realizzazione del Tempio Malatestiano di Leon Battista Alberti.
I pittori riminesi ebbero così direttamente in città la possibilità di studiare la modernità della pittura di Giotto ma è da come essi continuassero ad aggiornarsi sulle successive imprese del pittore toscano a Padova.
In quanto originali interpreti di quella modernità, fondata su una rappresentazione pittorica più sensibile ad indagare la natura e l’uomo, i riminesi contribuirono ad evolvere la cultura e la percezione visiva del pubblico medievale di ampi territori, fossero essi i potenti o colti committenti, oppure i semplici devoti in preghiera dinanzi alle immagini da loro dipinte.
Per questo è ancora un mistero la veloce perdita di influenza della scuola riminese. Certamente la peste del 1348 probabilmente uccise alcuni dei suoi artisti più valenti, come Baronzio; quell’evento seppure terribile non spiega in maniera chiara le ragioni di un declino così rapido, che lasciò spazio agli artisti di altre aree, in particolare quella bolognese, che dalla pittura riminese avevano tratto linfa vitale. La mostra compirà un ulteriore tentativo di capirne qualche ragione.

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